In pratica, il sempre maggior intervento dello Stato negli affari del capitale, allo scopo di mettere ordine nelle contraddizioni di quest’ultimo, ha come effetto una razionalizzazione del domino, ma anche, in prospettiva, la conseguenza di aprire un’altra serie di contraddizioni sia nello Stato stesso che nel capitale. Ad esempio, cosa che qui ci interessa moltissimo, la riduzione dei poteri del parlamento e l’enorme crescita dei poteri dell’esecutivo. La cosa è più che logica in quanto lo Stato è, prima di tutto, uno strumento esecutivo e poi, a livello di massa, come momento di chiusura del dominio, è anche strumento di reperimento del consenso. Lo Stato non può infatti reggersi senza consenso ma nemmeno senza esecutivo. La cosa lo spinge, spesso, a privilegiare questo secondo aspetto, e ciò genera alcune contraddizioni, tra cui quelle che pretendono continuare a far funzionare il governo quando non c’è più accordo tra i diversi processi di delega (partitici, sindacali, economici, ideologici, ecc.).
La perdita del contatto tra base e strumenti che filtrano le decisioni dell’esecutivo (il parlamento in primo luogo) è dovuta apparentemente a mancati accordi politici, a non sufficiente equilibrio delle forze di partito, mentre, nei fatti, è dovuta al peggioramento delle condizioni di fondo (livello dei prezzi, disoccupazione, diminuzione degli investimenti, impossibilità di sostegno della domanda, scompensi tra zone di sviluppo diseguale, tensioni sociali incontrollabili, repressione fuori misura, rigurgiti di metodi autoritari, inadeguatezza dei sistemi di controllo assembleare, ecc.). (…)
In fondo le cose vanno male e ciò concorre a bloccare un meccanismo di controllo che potrebbe, se lasciato alla sua logica razionale, farle andare meglio per pochi a spese di molti, sottoponendo questi molti ad un controllo capillare e ad una repressione di grande portata. Ciò non è possibile proprio perché non si può ottimizzare un aspetto del rapporto fra dominanti e dominati (l’aspetto repressivo) sena curare anche l’altro aspetto (le condizioni di fondo che devono garantire un certo benessere senza cui salta il consenso). La scelta elettorale diventa quindi un elemento della repressione immediata, in quanto consente di perfezionare un percorso dell’esecutivo che minaccia di portare a nessun posto senza una verifica del consenso. La guerra dei decreti ha una sua credibilità finché le pulegge dei sindacati e dei partiti funzionano e finché alla base ci sono spazi di erosione per l’onnivoro meccanismo capitalista. Quando questi spazi vengono meno le pulegge girano a vuoto e l’esecutivo slitta verso la repressione pura e semplice, slittamento che può concludersi in modo tragico, con una esplosione di lotte non più controllabili. Per evitare ciò si fa ricorso alle elezioni. La repressione si perfeziona, gli stimoli reali di lotta vengono dirottati verso obiettivi fittizi, lo sfogo dell’opinione si sostituisce al reale bisogno di rifiuto e di negazione. Allo sfruttato viene sovrapposto il cittadino.
Astenersi dalla partecipazione al ripristino repressivo è certamente un momento della presa di coscienza, ma è momento iniziale. La sovversione sociale coinvolge l’astensionismo dalla sua fase difensiva alla sua fase attiva, costruttiva, di accelerazione delle contraddizioni del capitale e dello Stato. Il rifiuto del consenso non è quindi soltanto astensione dal voto, ma è superamento attivo del meccanismo del coinvolgimento a diversi livelli. (…)
Cioè chi vota si distribuisce secondo un quadro ben preciso e quindi fornisce consenso (non ha poi molta importanza per quale partito voti), chi non vota non si può dire che solo per il fatto di non votare si colloca uniformemente dal lato di coloro che dissentono, e ciò perché esistono molti modi di “non votare” che spesso si riassumono in una indifferenza e non certo in una presa di coscienza. Tutto ciò consente di arrivare alla conclusione che il votare è contributo al ripristino e al perfezionamento della repressione, il non votare non è un attacco contro la repressione, almeno fin quando non si coagula organizzativamente attorno a qualcosa che permetta di far vedere, nei fatti,la negazione del consenso.
(Per un astensionismo sovversivo, 1983)