GEORGES MATHIAS PARAF-JAVAL

Tutte le volte che gli uomini sono chiamati a votare, questo richiamo può essere considerato come la richiesta di una firma per il prolungamento del preteso contratto sociale. Il votante è qualcuno che accorre il giorno in cui viene chiamato come un domestico, il giorno in cui viene attirato con un fischio come un cane ammaestrato ad obbedire, che arriva solo in quel giorno, e non in altri, qualcuno che viene quando l’autorità dice: «È giunto il momento di sanzionare ancora una volta e di far funzionare un sistema stabilito da altri e per altri, rispetto a te. È giunto il momento di scegliere quelli che faranno parte di questo sistema con o senza intenzione di modificarlo, di scegliere quelli che, per contribuire al funzionamento della macchina che spezza il debole, saranno pagati in denaro, in influenze, in privilegi, in onori. È giunto il momento di scartare ancora una volta l’idea della rivolta contro l’organizzazione che ti sfrutta e di obbedire all’autorità. È giunto il momento di votare, cioè di compiere un atto il cui significato è: Riconosco le leggi. (…) Ne consegue che ogni elettore è un conservatore, poiché il risultato del suo voto è quello di contribuire a far funzionare il sistema in vigore. (…)

In effetti, a partire dalla maggior età, ogni quattro anni (una volta in 1460 o 1461 giorni), l’elettore vota (cioè cerca di opprimere quelli che pensano diversamente da lui). L’autorità funziona tutti i giorni, in ogni istante.

Il suffragio universale significa dunque: un giorno di diritto all’intrigo, 1459 o 1460 di abdicazione.

Si vede che il suffragio universale è un potente mezzo per addormentare l’attività umana. Non ha nulla in comune con la sovranità popolare, con il diritto di essere in ogni attimo sovrani quanto gli altri. Non ha nulla in comune con l’eguaglianza. (…)

Per «suffragio universale» si intende il suffragio di tutti. In realtà è il suffragio di nessuno.

In effetti, bisogna anzitutto osservare che: (…)
quelli che, per una ragione o per un’altra (malattia, lavoro, ecc.) non possono andare alle urne il giorno dello scrutinio, non votano;
quelli che non trovano candidati di loro gusto non votano, votano scheda bianca o esprimono un suffragio inesatto.

Gli astensionisti volontari o indifferenti non votano.

Restano i votanti. Ma una gran parte dei suffragi di questi ultimi non contano, in quanto:
quelli che hanno dato il loro voto a candidati non eletti possono essere considerati come se avessero votato zero;
allo stesso modo, quelli i cui rappresentanti vengono messi in minoranza nelle assemblee possono essere considerati come se avessero votato zero;
restano in definitiva gli elettori i cui rappresentanti votano le leggi.

Osserviamo di passaggio che questi elettori proverebbero forse qualche difficoltà ad adottare una opinione uniforme, se i loro eletti li consultassero ogni qualvolta dovessero votare in nome loro.

Ma c’è di più. La maggioranza di un’assemblea non può mettersi d’accordo su un testo senza «conciliazione». Per conciliarsi, gli uni e gli altri devono abbandonare un po’ le loro idee. Nessuno può pretendere di far accettare le proprie nella loro totalità.

A cosa serve allora esprimere il proprio suffragio, dato che da questa espressione non possono derivarne:
né il desiderio dell’elettore;
né la verità che è intransigente e incompatibile con una quota mal ottenuta?

A cosa porta davvero il suffragio detto «universale»?

A far opprimere le minoranze dalle maggioranze, senza alcuna garanzia che queste maggioranze in sé abbiano ragione, anzi, con la certezza che queste maggioranze non possono avere in sé ragione.

Insomma, il suffragio detto «universale» non è il suffragio di tutti. È un trucco che può servire ad alcuni uomini (intriganti) per opprimere altri uomini.(…)
Si dice agli uomini: «Mettetevi il cervello in tasca, lo tirerete fuori di tanto in tanto per votare, cioè per consolidare l’autorità. Mentre abdicherete, l’autorità funzionerà senza sosta».

E ci si stupisce che la rivoluzione non si faccia! Ci sarebbe da stupirsi se la rivoluzione si facesse con un sistema simile, con un sistema antirivoluzionario, con un sistema conservatore.

La rivoluzione si farà quando gli uomini cesseranno di abdicare la propria attività.
La rivoluzione si farà quando gli uomini cesseranno di delegare i propri poteri, quando cesseranno di eleggere padroni, quando cesseranno di permettere a gente simile a loro di dire: «Mi avete dato il diritto di agire per conto vostro».

L’autorità cadrà il giorno in cui gli uomini cesseranno di imporsela da soli, il giorno in cui cesseranno di creare categorie di privilegiati, di governanti, di oppressori.

La rivoluzione comincerà nel preciso momento in cui gli uomini abbandoneranno la politica.

In tutte le rivoluzioni ci sono stati momenti in cui gli uomini hanno abbandonato la politica, in cui si sono occupati direttamente della propria sorte.

Ogni uomo che abbandona la politica comincia la rivoluzione, poiché si riprende la propria attività fino a quel momento abdicata. (…)

Le conseguenze dello sciopero elettorale sarebbero le seguenti:
dichiarazione di guerra al sistema stabilito ed avvio delle ostilità con la certezza di riuscire a rovesciare questo regime.

In effetti, rifiutare di votare nelle condizioni sopra indicate non è un atto di inerzia, ma un atto di rivolta. I governanti comprenderanno che l’astensionista consapevole non è un indifferente, ma un ribelle e che questo ribelle non può che agire.

Inoltre, l’astensione generalizzata renderebbe difficile l’esercizio del governo.
Quale autorità avrebbe un individuo eletto da una piccola parte di elettori? Quale autorità riconoscerebbe assemblee di individui delegati da minoranze? Quale autorità avrebbe il potere esecutivo eletto da queste assemblee?

Dal momento che per funzionare l’autorità prova il bisogno di farsi giustificare dal voto, si può concludere che esiste un limite di suffragi al di sotto del quale L’AUTORITÀ È SQUALIFICATA.

E nello squalificare l’autorità, la massa prenderebbe coscienza della propria forza. (…) Credo che quanto precede mostri l’importanza dello sciopero elettorale, preludio possibile di una rivoluzione la cui forma moderna potrebbe essere lo sciopero generale.

(L’assurdità della politica, 1904)